Coltivare: una parola meravigliosa. Un gesto che è coltura, quando la nostra attenzione è rivolta alle piante. Diviene cultura, quando è rivolto a noi, come esercizio intellettuale. Assurge a culto, quando si rivolge allo spirito.
Il vino contiene in sé tutto ciò, materializzando coltura e cultura e, talvolta, divenendo esso stesso elemento di culto.
E' sostanza materiale, dotata di peso. A tal punto che, in lingua inglese, il sostantivo “concrete” indica il calcestruzzo. Non è un caso, forse, che Cimento sia nato e cresciuto in vasi vinari fatti in cemento. Della pietra, in cui ha vissuto, evoca molti sentori che ne caratterizzano lo spettro olfattivo: la mineralità del sasso asciutto e l'aroma iodato dello scoglio bagnato. Dal mondo inanimato dei minerali, i profumi di Cimento si avvicinano a quelli propri del regno vegetale, evocando le note affumicate delle torbe fino ad arrivare a ricordare i sentori delle foglie di tè essiccate e la fragranza dei fiori di camomilla. Non abbiate timore dell'opulenza gustolfattiva di Cimento; è potente, certamente, ma sa essere altrettanto gentile. Meglio ancora, è cortese, per lignaggio, come il vitigno che lo ha generato.
Giovedì, 1° ottobre 2020, l'abbiamo interrato, per la prima volta. Un'anfora georgiana, della capienza di 1700 litri, è stata riempita del suo mosto e delle sue bucce. Per 7 mesi, è rimasto confinato nella terra caucasica, separato da questa da un sottile e diffuso strato di cera d'api.
Un pesante disco di pietra, posato sul collo dell'anfora, è stata l'unica barriera interposta fra l'interno e l'esterno.
Due follature quotidiane, per i primi 10 giorni di fermentazione tumultuosa e, successivamente, il confinamento verticale delle bucce, per la prosecuzione della macerazione, in condizioni di cappello sommerso.
Trascorsi 7 mesi, il vino è stato separato dalle bucce, per sgrondatura, e travasato in vecchi tonneaux da 500 litri, dove è rimasto, prima dell'imbottigliamento, fino ai primi giorni di settembre 2021.
In questo modo, è nato il primo vitigno derivante dai colli Tortonesi, ottenuto per lunghissima “infusione” delle bucce nel vino; un vino unico.
Lo spettro gusto-olfattivo è coerente con una vinificazione che non è volta ad estrarre profumi e sapori dalle parti solide ma che considera queste come elemento essenziale di un equilibrio da ripristinare e preservare, unitamente alla frazione liquida, il più a lungo possibile, come accadeva nell'acino, prima della sua rottura.
L’aspettò più affascinante di Losco è il suo peculiare rapporto col tempo.
«Fugit irreparabile tempus». Virgilio descriveva in questo modo l’inesorabile fluire del tempo. Molti uomini desiderano ritardarne lo scorrere. Pochi cercano di anticiparne lo svolgimento. Noi siamo fra questi ultimi. Losco incarna il desiderio di rendere presente il futuro, di bere, in anticipo, cio che sarà; un wine-gate temporale che consente di godere di un equilibrio sensoriale inimmaginabile, per un vino di tale età e con una singolare storia alle spalle.
La vite sopravvive a colui che l’ha messa a dimora.
In questo modo, si sottrae all’idea di proprietà, di
possesso, così cari all’uomo.
È sconosciuto il nome di colui che impiantò il vigneto
da cui ha origine questa bottiglia di Barbera; era il
1955 e molti di noi non erano ancora nati.
Da allora, di stagione in stagione, le viti hanno
sempre fruttificato e qualcuno ha trasformato le loro
uve in vino, ogni anno.
Ora, è nostro compito farlo.
Il pensare che quelle viti facciano scorrere la linfa,
nelle loro vene, da quasi 80 anni, fa divenire le uve
generate un prodotto del tempo, un elemento della
memoria, quella di noi tutti.
Un’anfora, in terracotta, preserva, per nove mesi, la
gestazione del vino, a contatto con le bucce che lo
contenevano in milioni di bacche mature.
L’anfora, interrata, evoca una dimensione sacrale,
perché mantiene una connessione vitale fra il vino
e la terra, come fosse una immaginaria placenta
che garantisce il respiro, lo scambio metabolico fra
il prodotto dell’uomo ed il misterioso mondo delle
potenze ctonie, terrestri.
Ecco, dopo il tempo vi è il sacro. Sono le uniche due
cose indisponibili al potere del denaro.
Ve le doniamo, entrambe, nella bottiglia che
porterete a casa.
Il nome di un vitigno, talvolta, delinea i tratti
caratteriali del vino di cui è origine. I latini direbbero:
nomen omen. Cortese.
Un aggettivo che ha un etimo comune col verbo
corteggiare; evocazione di gentilezza, grazia,
armonia, innamoramento, suadenza, relazione
amorosa. Questo vino suscita, in noi, tali sentimenti,
nel momento stesso in cui i nostri sensi vi si
immergono. La sua beva è un gentile corteggio.
Come un uomo sembra somigliare, nel tempo,
al cane che sceglie, così noi ci identifichiamo,
sempre più, in un vitigno che, con giurata fedeltà,
accondiscende ai nostri desideri, alle nostre
aspirazioni.
Desideriamo un vino la cui personalità non sia
prepotente ma persuasiva, un vino che non sia
esclusivo ma accogliente.
Come fosse un trailer degustativo, vi anticipiamo
due descrittori olfattivi che pervaderanno il vostro
respiro, durante l’assaggio: pietra focaia ed
essenze vegetali del mare. Fuoco ed acqua sono
gli elementi di un vino in grado di accendere i nostri
sensi e, nel contempo, di armonizzarli nell’alveo del
nostro fiume emotivo.
Immagina di trovarci in un caldo pomeriggio d'estate, quando i raggi del sole filtrano attraverso le foglie degli alberi, creando un gioco di luci dorate. In questo incanto naturale, si svela un vino bianco che incarna l’essenza di quella magia: un blend raffinato di Chardonnay, Timorasso e Pinot Bianco, vinificato con cura in vasche di acciaio.
Il colore di questo vino è un intenso oro luminoso. La sua tonalità calda è un invito a scoprire un mondo di aromi e sensazioni.
All’olfatto, si sprigionano note fruttate che danzano insieme in un'esplosione di freschezza. Il profumo di pere mature si fa protagonista, accompagnato da delicate sfumature floreali e sentori agrumati. Ogni sorso è una passeggiata attraverso un frutteto, dove la dolcezza della frutta si mescola all’armonia della natura.
Il palato è pervaso da un gusto intenso, ma sorprendentemente leggero e beverino, come un dolce sussurro d’amore in un pomeriggio ventilato.
La struttura è elegantemente bilanciata, con una freschezza che invita a un nuovo sorso. La mineralità, ispirata ai grandi vini francesi come il Chablis, si fa sentire in sottofondo, conferendo profondità e complessità senza appesantire.
Ogni calice racconta una storia, un momento da condividere.
È il vino perfetto per un brindisi romantico al tramonto, oppure per accompagnare piatti di pesce fresco, insalate leggere o formaggi cremosi.
Il suo carattere affascinante e il suo bouquet fruttato, insieme alla freschezza vibrante, renderanno ogni occasione un ricordo indimenticabile.
In questo calice di vino bianco, la passione per la viticoltura si unisce a un’eleganza senza tempo, creando una poesia liquida che invita a sognare, brindare e, soprattutto, amare.
Umberto Lucarno e Claudio Bruno per Cantina Mezzacane